Blade Runner 2049 di Denis VIlleneuve
«Se tu avessi visto un miracolo…»
Blade Runner 2049 è sbalorditivo. Perché amalgamato scrupolosamente, così benevolmente dubitativo e dal gesto ossequioso nella grandezza in cui ammalia. Esteticamente ricercatissima, senza però lasciarsi morire sotto la ‘pioggia’ dell’omaggio che ne definì, a priori, il fascino eterno. Perché nonostante l’universo derivativo da cui attinge, da ogni latitudine, Denis Villeneuve tenta una strada più impervia e personale, sulle ali iridescenti di un ‘disgelo emotivo’ che si concede (molte) sospensioni, come inabissali silenzi.
Los Angeles, 2049. I replicanti della Tyrell sono stati messi fuori legge, ma poi è arrivato Niander Wallace (Jared Leto) a convincere il mondo con la sua rivoluzione robotica. Incaricato di recuperare un vecchio modello di replicante Nexus, l’ufficiale K (Ryan Gosling), cacciatore di androidi appartenente alla polizia, riporta in luce un segreto a lungo sepolto che ha il potenziale di far precipitare nel caos ciò che è rimasto della società. Una disperata ricerca che lo porterà sulle tracce di Deckard (Harrison Ford), di cui non si hanno più notizie da oltre 30 anni.
Scarti anestetici, perfino sentimentali, che della cupezza del film di Ridley Scott colgono, rovinosamente, l’incedere crepuscolare del tempo. Attraverso un noir dall’architettura rarefatta ma narrativamente scarna, sempre in balia di un immaginario ‘ipotetico’, disciolto come neve nel progresso. O ancora, di un interrogativo (molto umano) che decolli per sempre verso l’orizzonte, eternamente perso fra ologrammi metafisici e deserti urbani, fra «amore e precisione matematica». Sì, è vero, dai cyberspazi scenografici alle implicazioni più distopiche, fino alla sontuosità del piano visivo apportato da Roger Deakins, questo Blade Runner replica tutta la potenza, evocativa ed identitaria, di quell’ineguagliabile capostipite. Allora cosa ne viene fuori? Una nuova finestra sul futuro? Oppure un simulacro dall’aura nostalgica, ben innestato tra le nostre reminiscenze?
Domande legittime dinanzi a un film-upgrade che rimesta nel postmodernismo anni ’80, fra taciuto pessimismo ed ambientazioni desolanti interrotte da sole rovine: agonizzanti recessi dell’anima, città evanescenti di una memoria smembrata che però brama – disperatamente – il ritorno a una carnalità umana, tattile, imperfetta e perciò reale. Non più digitale né ‘sintetizzata’, ma in grado di toccare per amare e di amarsi nonostante le disumane colpe che si porta sulle spalle.
Al dì fuori del giudizio spietato di (quel) tempo, Villeneuve si pone oggi su quelle stesse tematiche per dare forma ad un altro tipo di miracolo. Quello che, tirando dal cilindro le icone del passato (Elvis, Monroe, Sinatra), destabilizza lo scontro fra analogico e tecnologico per restituire, al mito, il ruolo archetipo di eterno glitch emozionale. Uno confronto impari che mai trascende, bensì rivela la chiave per la sua lettura: cosa resta delle ‘reliquie umane’ in questa (nostra) chimera, alba digitale?
La nostalgia dell’abisso (amore? paura?), la disobbedienza contro la perfezione (virtuale), il sentimento che non si spiega più a parole ma attraverso i ‘vuoti’ più flebili ed asettici. Che tengono miracolosamente assieme Blade Runner 2049, facendo del sequel più temuto di sempre un poema visivo di origami commoventi e derive esistenziali oramai, fuori controllo. Dove tutti – replicanti, uomini e donne – sognano, oggi come nella Los Angeles del 2019, di scorgere un galoppante e libero unicorno.
Blade Runner 2049
- Regia: Denis Villeneuve
- Cast: Ryan Gosling, Harrison Ford, Ana de Armas, Robin Wright
- USA 2017