The Crown, la recensione della 2 stagione disponibile su Netflix
La donna dietro il mito, la famiglia, il palazzo, tra i luoghi più influenti e controversi della Terra. La Corona è a nudo, tanto da non voler più distogliere lo sguardo e vederla tutta d’un fiato.
Perché, già dalla fulminante prima stagione, The Crown aspira ad un’immersione meravigliosa, con la grazia delle più regali scritture Peter Morgan dipinge splendidi personaggi abbinati a un’attenta minuzia dei particolari storici. Di fronte ai difensori delle antiche tradizioni, dei riti immutabili, si stagliano così i portatori delle esigenze della modernità: quel seme ‘fanciullesco’ e dagli occhioni blu che racchiude Claire Foy, in favore di una visione sempre alta del potere.
Tra highlands scozzesi e paesaggi esotici, tra storiografia e senso meraviglioso del racconto, tra mito e figure tridimensionali dalla grande empatia e trasporto. Nella sua interezza, la series creata da Morgan restituisce il perno di un mondo quasi inarrivabile, investito unicamente di attori e autori dai nomi altisonanti, dove ogni dialogo, ogni gesto, ogni scena gronda di reale umanità. Famelici allo sguardo, ci sembra di percepire tutto il peso di quegli spazi freddi e sfarzosi, lo scricchiolare dei mobili antichi, il frusciare degli abiti, la profonda complessità dietro il velo istituzionale. C’è tutta l’ingegnosità di uno superbo affresco moderno, sfaccettato quanto i dettagli che la rendono un dipinto a tela su video.
Allora si potrebbe storcere il naso, giusto un po’, davanti a questa 2 stagione di The Crown: che ripercorre le ruggenti stagioni ’57 – ’63 facendo prevalere il sentimento sulla ragione (lasciando in ombra, a sprazzi, proprio quelle conflittualità politiche), fino ad aumentare il proprio campo d’azione all’interno della Royal Family (inglobando lo stesso Carlo). Dove il tutto, a dispetto del canovaccio da romanzo-storico, risulta meno coeso e più relegato alle fluorescenze del melò romantico.
Eppure, fra le mura imperiali di Buckingham Palace, ogni disincanto scambiato nel silenzio porta con sé un frutto ‘devoto’ (alle corde emotive del pubblico), ma non meno capace di far sgranare gli occhi. Dinanzi all’opulenza della messinscena, nell’accuratezza dei dettagli storici, in un crescendo di drammatizzazione e tensione che flirta con il dubbio, il mistero, conciliando il rigore psicologico alle fragilità più intime in seno alla Storia d’Inghilterra (e quindi della Corona). Perché dietro al prestigio produttivo, al colpo d’occhio tra le pieghe di gesti, sofisticatezza e parole, ci sono poi loro. Quelle performance da brividi – gigantesca sua lesa maestà Claire Foy – a fare di The Crown uno spettacolo ancora memorabile, una vetta assoluta nell’esperienza cine-televisiva.
Sbrogliando, di volta in volta, una riflessione densa quanto invidiabile sulle creste di un’alta scrittura. Regalandoci episodi sublimi, punte di diamante come Beryl e Matrimonium, o anche il forgiante dolore trapelato nell’episodio Pater familias. E’ come trovarsi a corte: rivestire la sacralità delle istituzioni in un’unica, traboccante inquadratura pregna di fulgida bellezza.