Stranger Things, la recensione della 2 stagione disponibile su Netflix
C’è un che di ipnotico, soprannaturale, come un passaggio segreto nel tempo e in chiave nostalgica (oltre che ultra-consapevole) di un ‘ritorno’ sfacciatissimo ma contornato d’amore verso quel cinema anni ’80 dove gli adolescenti sfidavano l’oscuro per ritrovarsi poi magicamente adulti.
Stranger Things è una centrifuga di tutto questo, più nel cuore che nell’anima, fin dalla sua prima folgorante stagione. Attraverso l’idea fortissima dell’infanzia di Stephen King che incontra la musica di John Carpenter, le avventure de I Goonies a quelle paranormali di Poltergeist, la mano dal lungo dito di E.T. che pungola la celebrazione quasi mistica di gioia e di scoperta in Stand By Me. O ancora i lampadari volanti di Incontri ravvicinati del terzo tipo, le commedie di John Hughes sulla vita scolastica e sentimentale dei teenagers americani, fino a quel ‘sottosopra’ fantastico con gli echi orroriferi da Alien all’iconografia tolkeniana ne La Terra-di-mezzo.
Il Bosco Atro messo in scena nel 2016 dai Duffer Brothers poneva così il diritto ad un sogno poetico di mezza estate: ricreando un mondo e uno stile dalla candida ingenuità dove colpire il ‘mostro’ (la cosa) con la fionda e, perché no, farsi trasportare da immagini genialmente re-inventate, dentro un cinema considerato ormai ‘classico’ e che pensavamo esserci lasciati indietro da tre decenni. Perché ogni taglio di montaggio, ogni benevolo omaggio, ogni interazione del cast, in Stranger Things rimarca questa distanza linguistica, tra il prima e il dopo post-moderno. Per guardarci dentro, forse, per recuperare quei modelli, come quel senso di comunione o relazioni elementari inscritte nel più alto e nobile degli intenti.
A quali rischi andava incontro, allora, questa 2 stagione attesa un po’ da tutto il mondo? L’alto scadere nel fanservice? Il ritorno geniale sull’onta anni ’80 come al B-movie nerd d’annata? O ancora, diventare un furbo revival dall’impronta culturale più saccheggiata del momento?
Ed invece, pure stavolta Stranger Things si smarca – brillantemente – dalle secche di un’appropriazione indebita, ‘rubata’, per espandere e rimescolare le carte lungo una più covata cupezza dagli esiti meno accoglienti eppure mai banali. Senza venir meno al suo disincanto giovanile, al fantastico o al pauroso, ai delicati sentimenti in gioco; tra l’ebbrezza per un’avventura fatta di complotti, incidenti ‘scientifici’, istantanee d’azione (del 7 episodio potevamo farne anche a meno) e quelle nevrosi adolescenziali con – al loro centro – il solleticare nostalgico di un nervo ‘scoperto’ che guarda giù nell’abisso. Che poi, riflessione sulla diversità (ricchissimo l’assemblaggio anagrafico) è anch’esso l’evolversi dell’età, il fiorire del corpo e di contro perdere inevitabilmente qualcosa, nei meandri contingenti della realtà. Se, quindi, tutto è più orrifico e tentacolare (a partire dalle mostruosità del “Sottosopra”), la grandiosità degli spazi rigenera l’effetto ‘action’ quanto un coinvolgimento emotivo costruito ad hoc, sempre dietro l’angolo.
Insomma, svanisce l’effetto novità ma resta l’atto d’amore. Il nucleo caldo su cui fondere un solido intreccio con le ribollenti storyline della trama. In questo, come al di sopra di qualsiasi aspetto tecnico (qui ancor più estetico), i fratelli Duffer si dimostrano maestri annessi ed autori sorprendenti. Attraverso lo specchio deforme di un pantheon ancestrale: lì a nutrire l’intera gamma emotiva di uno show meravigliosamente incomparabile. Lì a scoprirsi ancora una volta bambini, fra i boschi (in)contaminati dell’Indiana.