First Man – Il Primo Uomo di Damien Chazelle
L’ultimo dei romantici. Dal famoso allunaggio al dolore più straziante, quello chiuso tra gli spazi intimi della mente, che innervano sensorialmente tutto il film di Damien Chazelle . Una via crucis immolata al sacrifico che assomiglia più a un trip allucinogeno, interiormente proiettato sugli squilibri percettivi e lungo uno stupefacente resoconto intimo.
L’avvincente storia della missione della NASA per portare il primo uomo sulla Luna. Resoconto viscerale e in prima persona, nell’arco di tempo fra il 1961 e il 1969, basato sul libro di James R. Hansen, che racconta la figura di Neil Armstrong come i sacrifici e il costo umano per un’intera nazione… il primo grande colpo messo a segno dagli Stati Uniti nella corsa allo spazio, fino a quel momento guidata dai successi dell’Unione Sovietica.
Ci si lancia nell’ignoto con le promesse di successo, dentro minuscole cabine dall’effetto vintage che disegnano un’orbita ellittica ed ora lirica che accarezzano il fervore con l’epica del sogno. Ma è Il modo martellante in cui la telecamera indugia su Neil Armstrong (Ryan Gosling), a ricalibrare gli sguardi per poi vorticare ruvidamente tra gli scricchiolii del metallo, i fischi del decollo, le esplosioni dei motori… apparati analogici contrapposti al silenzio assordante dell’universo, una sonorità ancora da colmare e scoprire. Facendo di quell’orizzonte un leitmotiv utopico costellato, in cielo come in Terra, da lutti indicibili e da sforzi immani per raggiungere la grandezza infinita del Cosmo.
Tutto, in First Man, è gravato da questo peso di responsabilità e di ossequioso rispetto, al pari di una coreografia funebre che nel nome della scienza ha visto cadere uomini, infrangersi ambizioni, nonché misurare la resistenza dei corpi contro la vita mortale dei nostri beneamati sognatori. Melodramma rigato di tristezza, poi survivor movie bagnato dal desiderio, infine impresa storica che lascia sullo sfondo la vastità, la celebrazione, l’effimera supremazia dell’uomo racchiusa dentro un contenitore claustrofobico, deperibile e angusto. In primo piano, per Chazelle, c’è invece tanto l’ossessione quanto la sfida di un uomo tormentato e schiacciato sotto il peso di una perdita inconsolabile. Lassù nel buio cosmico, a volteggiare assieme a lui, c’è la grana ipercinetica di un cinema grandioso che stringe al collo senza mollare più la presa, capace di deformare la prospettiva e il punto di vista sulle cose. Un’apnea cinematografica che scuote le fondamenta del nostro astro terrestre, lo inclina fino a inabissarlo nelle asperità di un’espressiva, mirabile piccolezza.
Perché First Man trova la redenzione in un vuoto da riempire, che ad ogni respiro o battito – a tempo di musica siglata dal maestro Justin Hurwitz (Oscar per La La Land) – Chazelle fa deflagrare da un momento all’altro. Può questo bastare a superare i fallimenti, nel riconciliare il tutto (anche un cuore a pezzi…), fronteggiando la morte per spingersi nell’oltre della nuova frontiera? Non senza l’ancora dell’amore o di quella speranza che la Janet di Claire Foy, attrice formidabile, coltiva silenziosamente fra le quattro mura domestiche. Anche lei in balia di un viaggio folle e drammaticamente intimo e terrificante, che ha per meta un luogo suggestivo ma alienante, freddo e senza vita, quanto lo sono alcuni spazi oscuri dell’anima. Un deserto lunare che rispecchia il balzo straziante di un uomo per superare la propria tragedia. Luogo da lasciarsi alle spalle per ripartire, come un marinaio dopo la tempesta, tornando all’isola Terra e alla vita.
Dal canto suo, Chazelle firma un clamoroso film dall’esperienza polisensoriale, abbacinante, non immune al dolore e alla paura ma aperto al rischio, temprato dalla sua magnifica ossessione. In grado di contaminarsi e contaminarci fra mille espressioni e il terreno accidentato della Storia. Unica voce narrante nell’intercalato gioco di sguardi tra Neil e la luna.
FIRST MAN
Regia: Damien Chazelle
Cast: Ryan Gosling, Claire Foy, Jason Clarke, Kyle Chandler, Corey Stoll
USA 2018