Fargo, una storia vera.

 

<Questa è una storia vera>>

è l’incipit di Fargo e di ogni stagione dell’omonima serie.

Crime comedy d’eccezione, se non LA crime comedy.

I due originali fratelli Joel ed Ethan Coen scrivono una sceneggiatura da premio Oscar, e anche grazie alla perfetta McDormand (Tre manifesti a Ebbing, Missouri 2017, Nomadland 2021) confezionano un film davvero unico.

Tutto ruota intorno ad uno strampalato piano criminale. Siamo negli anni 80 in Minnesota. Il film si apre con l’omicidio di tre innocenti in uno scenario deserto e innevato. L’investigazione è condotta da Marge, una poliziotta incinta (la MacDormand aspettava veramente un bambino dal marito Joel Coen). Con un tipico accento locale, un lucido senso della realtà, in mezzo a colleghi e personaggi ‘stralunati’ Marge comincia a indagare.

Ma come siamo arrivati a questo massacro?

Il fulcro del plot è costituito dall’idea di Jerry, un venditore di auto (William H. Macy), di organizzare il rapimento della moglie (Jean), per poter ottenere un ricco riscatto dal suocero Wade che lo disprezza (come l’iconico suocero in Borotalco del nostro Verdone). Nel piano, però, tutto va storto.

I due rapitori assoldati da Jerry sono due disadattati (gli ottimi Stormare il cattivo di Prison Break– e Steve Buscemi – caratterista d’eccezione, ricordiamo solo Le iene-) e nonostante i suoi sforzi, Marge non riuscirà a impedire una vera e propria carneficina. Alla fine anche la moglie rapita morirà (ma fuoriscena) e una sconsolata Marge si chiederà <<Tutto questo per un po’ di soldi, dov’è la logica?>>.

Fargo, sia il film che la serie (è uscita la scorsa primavera la quinta stagione con un grande Jon Hamm, Mad Men), ha un fascino inquietante. Per quanto ci sia sempre un elemento ‘comico’, che sembra sdrammatizzare gli eventi, niente riesce a eliminare la cupa e oscura atmosfera che circonda gli eventi. L’intento caricaturale, con punte d’analisi sociale, dell’opulenta società americana e di come essa sia permeata, e quasi fondata sulla violenza (e chissà che non sia l’idea fondativa dello sfortunato Horizon di Kevin Costner) e su un atavico male, viene reso in maniera volutamente piatta e asciutta.

Il male nelle cinque stagioni della serie prende forme diverse:

1. Malvo, il male demoniaco.

2. Ohanzee, il male che nasce dal desiderio di vendetta. 

3. Varga, il male figlio del capitalismo più esasperato.

4.Oraetta, il male folle.

5. Roy, il male figlio della cultura patriarcale.

E a proposito di male, invito tutte le lettrici e i lettori a recuperare Nosferatu di Eggers (uscito da poche settimane). Questo male viene contrastato dalla concretezza della working class americana e sempre (eccetto che nella seconda stagione) da una figura femminile condensata di una rara umanità: Molly, Gloria, Ethelrida, Dorothy e Marge appunto.

Queste donne si ritrovano a combattere, con le sole armi dell’intelligenza e dell’ostinazione, diverse sfaccettature del male. Un male che spesso si avvicina nei suoi connotati a un terrificante nichilismo, paravento spesso di grette motivazioni, riconducibili ca va sans dire ai soldi. Soldi che, associati al numero della bestia, scaraventano decine di innocenti in un calderone di morte e situazioni splatter (molto vicine, se non identiche, agli stilemi tarantiniani). Tra citazioni a Kubrick (apparizione di ‘monoliti’ inspiegabili come l’ufo nella terza stagione) e Hitchcock (soprattutto nella sfera voyeuristica), ai Coen, più che il piano criminale, interessa l’effetto a valanga che provoca, in tutte le sue grottesche e inaspettate diramazioni.

Se in una sorta di cinematografia estrema, i personaggi decisamente sopra le righe, interpretano pulsioni umane fin troppo realistiche, di fronte a situazioni fuori portata, solo la solidità, la purezza quasi angelica, di pochi personaggi, riesce a calibrare il difficile equilibrio del racconto. In filigrana gli eroi sono sempre lì, omerici nello sfidare forze sovrastanti, passo dopo passo a cercare di ‘salvare il mondo’ (o il loro piccolo mondo).

Non è tanto l’acume o l’abilità ad aiutarli (che comunque possiedono), quanto un profondo senso umano, una stoica volontà a compiere il proprio dovere e, un’innata consapevolezza che tanti sonni innocenti vanno tutelati (faccio riferimento ad esempio, alla meravigliosa scena di Lou che vigila sulla sua famiglia di notte, nella stagione 2 e raccontata nella stagione 1).

I Coen in punta di penna e influenzati, da un lato dalla rivoluzione di Twin Peaks nel descrivere il male metafisico presente nella provincia americana, dall’altro da Pulp Fiction nell’inedita graficità pulp delle scene di violenza e nella struttura del racconto, ci immergono in una realtà inquietante, dove sembra dominare il caso e dove le persone non sono altro che figuranti, preda della voracità del male.

Lo sguardo cinico dei registi si posa su un mondo dove le poche figure positive (lo sceriffo Hank e il genero Lou nella seconda stagione ad esempio), si muovono in un mondo fatto di prepotenti e squallidi personaggi (ugualmente distribuiti tra uomini e donne), mossi come dicevamo dai più biechi e meschini propositi (come nell’ottava puntata della prima stagione di The Wire, D’Angelo è disgustato da come le persone si usino a vicenda).

Con grande talento narrativo i fratelli Coen fondono commedia e tragedia, grottesco e humor nero, crime e farsa. La banalità (o stupidità) del male sembra appiattire ogni possibilità di senso, e quasi tutti i personaggi vengono spogliati della loro dignità di persone. Più che uomini e donne sembrano maschere, caricature (consiglio la lettura di Napoleone edito da Bonelli- numero 38, Il mio nome è nessuno) dove tic, manie e voglie ce li rendono via via dall’essere commiserati, a odiati e alla fine disprezzati.

Dalla poliziotta golosa e impicciona (come Peter Falk nel tenente Colombo), al marito piccolo borghese dalla faccia perbene. Quasi figure dello scultore Giacometti, che avanzano faticosamente di un passo alla volta, per alla fine girare in un cerchio senza senso. C’è da dire, che a parte qualche b movie negli anni ’80, è proprio dai ’90 (non a caso definiti gli ‘anni di plastica’) che un certo spirito cinico si impossessa del racconto hollywoodiano e si vengono a creare nuovi generi, come appunto quello ‘coeniano’, per descrivere il mondo. Un mondo spaventoso e disgustoso che di volta in volta ritroviamo nei loro film: Fratello, dove sei? (2000), Non è un paese per vecchi (2007), Burn after reading (2008) e La ballata di Buster Scruggs (2018).

Fargo potrebbe essere assimilato a un dramma shakespeariano; basta sostituire agli elementi moderni scenari dell’Inghilterra di fine 500. Nell’Amleto, entrambi i personaggi che muovono l’azione, creano piani folli sui quali finiscono per perderne il controllo e che culminano in uno spargimento di sangue. Numerosi spettatori sembrano apprezzare Fargo per le sue qualità umoristiche, la sua caratterizzazione della cultura del Minnesota e per l’interpretazione di Frances McDormand. 

Fargo però, è anche il frutto di una scrittura brillante, puntellata da una efficace colonna sonora, da una trama tragica e soprattutto da una ruvida ‘scorrettezza politica’. Mi piacerebbe attirare l’attenzione su una caratteristica che è spesso trascurata: quanto bene la musica si adatti alle immagini del film. Ogni scena del delitto ha una punteggiatura sonora superba e altri indizi sonori che contribuiscono all’effetto generale (ad esempio quando l’ufficiale di polizia chiede a Carl Showalter “Cos’è questo?” in riferimento al rapito e immediatamente sentiamo un inquietante suono di chitarra).

Come già accennato, all’inizio di Fargo c’è un breve sottotitolo che dice che il film è basato su una storia vera. Questo stratagemma serve a ingannare lo spettatore, ma anche a giocare con le aspettative del genere. Realizzato nel 1996 con un budget ridotto e un cast ristretto di efficaci interpreti, Fargo è spesso considerato dalla critica il film dei Coen per eccellenza: eccentrico, strano, violento e cupamente divertente. Nonostante alcuni dei loro film siano finanziati da importanti distributori, i Coen sono rimasti in tutti questi anni, un’unità veramente indipendente, trovandosi sempre un angolo nell’industria cinematografica, dove riescono a poter esprimere liberamente sé stessi.

E devo dire che la loro capacità espressiva dà il meglio nella costruzione dei personaggi. Jerry e Marge sono due personaggi che hanno personalità opposte l’una dell’altra. Jerry è un venditore goffo, nervoso e ottuso che ha un grosso problema finanziario; Marge invece è un capo della polizia incinta, perseverante, rapida nel ragionamento, ma calma, che si imbatte in uno dei casi di rapimento-omicidio più strani mai visti da quelle parti in Minnesota. Questi due protagonisti e le figure di contorno hanno però, come accennavamo, i caratteri di caricature, caricature che si muovono all’interno di una messinscena perfetta, entro una sceneggiatura diamantina.

Durante tutto il film nevica costantemente, un bianco nitore macchiato di sangue, come nella prima stagione dell’omonima serie (ed è impossibile al bianco dell’uovo macchiato di rosso nella sigla di Dexter). La fotografia del leggendario Roger Deakins è un altro aspetto sorprendente del film. Costruendo fotogramma dopo fotogramma lunghe e composte riprese di bianco, riesce a conferire un senso di tristezza all’atmosfera del film. Come già esplicitato, il tratto distintivo dei Coen è nella loro capacità di fondere una violenza esasperata e senza compromessi, con momenti di oscuro umorismo.

Lo vedremo anche in Burn after reading (2008), ma è in Fargo che hanno effettivamente perfezionato questa macabra formula. Questa formula che fonde non sense e una stralunata capacità di racconto, ci ricorda alcuni film scandinavi come Un piccione su un ramo riflette sull’esistenza (R. Anderson, 2014) o Le mele di Adamo (A. T. Jensen, 2005).

Vorrei dare un ulteriore chiave d’analisi del film e della visione dei Coen. Fargo ci dipinge un quadro di sfrenata aggressività maschile. Tutti gli uomini sono concentrati sul denaro (anche Norm). Tutti gli uomini a Minneapolis trattano male le donne, e le donne sono o nutrici (madri) o prostitute. In Brainerd, Marge apparentemente governa la città e lei e i suoi dipendenti vengono trattati con rispetto. Anche lei è, o sarà comunque a breve, una madre, e certamente è la madre di Norm (il marito) e del suo maldestro vice (che tratta con una dolcezza unica, così come Tom Watchowski il suo nella saga di Sonic). Si potrebbe quasi leggere  l’eccentrico mondo di Fargo, in chiave psicoanalitica, come un mondo di oralità; un mondo come quello di un bambino, polarizzato tra il freddo gelido e la calda intimità, tra un padre duro e rivale e una madre calda e confortante.

Wade (il suocero di Jerry) domina a Minneapolis; Marge è dominante in Brainerd (la cittadina di campagna dove è di stanza). In termini psicoanalitici più familiari, il figlio oppresso (Jerry) affronta una figura paterna prepotente (Wade) e perde: una trama edipica standard (e ritorniamo all’Amleto). Qui abbiamo, in effetti, tre figli: lo sfortunato Jerry, il pazzo Carl e il bruto e muto Gaear (i due rapitori). Tutti sono incompetenti in vari modi, ma riescono ad uccidere due figure genitoriali (Wade e Jean, la moglie di Jerry). Tuttavia, i criminali vengono tutti sconfitti da una donna forte e capace (e caratterialmente opposta al padre-padrone), più in contatto con le cose reali di questo mondo rispetto agli uomini. Gli uomini, come dicevamo, sono tutti a caccia di denaro o coinvolti in astruse strategie e comportamenti grotteschi, affari da adolescenti praticamente. Solo Marge è solida e saggia, è in definitiva adulta.

I film dei Coen, per concludere, si basano sui solidi e consolidati valori americani. Qui la gente di campagna, che sembra stupida e arretrata, supera in astuzia i furfanti della città: una scelta narrativa che risale all’era del muto (il primo premio Oscar, Aurora di Murnau, 1927, sottolineava proprio la differenza tra la purezza della vita in campagna, e la corruzione della città).

E il film, riesce pienamente a farci vedere come squallida l’avidità, la lussuria, la crudeltà e così via, proprio come i grandi classici tra gli anni ’30 e ’50 (su tutti cito solo il capolavoro Greed di Eric Von Stroheim, precisamente di cento anni fa). Cosa c’è di così eccezionale quindi? Lo stile. Stile che mescola il crime nelle sue forme più abiette con la commedia stravagante.

Consigliati:  Le Iene (1992), l grande Lebowsky (1998), Fratello, dove sei? (2000), Non è un paese per vecchi (2007), Burn after reading (2008), Tre Manifesti a Ebbing, Missouri (2017), La ballata di Buster Scruggs (2018).

Regia: Ethan e Joel Coen

Interpreti: Frances McDormand, William H. Macy, Steve Buscemi, Peter Stormare

Anno: 1996

Romuald Marchionne

Letterato di formazione e fumettaro da sempre, amo il cinema in ogni sua singola sfaccettatura, genere e stile, periodo storico, regista e nazione. La folgorazione è avvenuta con Furore (The grapes of Wrath, 1940) di John Ford. In seguito I guerrieri della notte (The Warriors, 1979), con i sette minuti più belli della storia del cinema, mi hanno rapito per sempre nell'infinito universo della settima arte. Nella mia top 10 c'è di tutto, anche se il realismo poetico francese degli anni '30 ha un posto speciale nel mio immaginario...

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